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Lettura e narrazione in Rete: un esempio di commentario critico

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Le premesse

In data 7 novembre su R2 Libri (inserto settimanale del quotidiano La Repubblica) la giornalista e commentatrice culturale Loredana Lipperini, proprietaria e moderatrice del blog Lipperatura[1], ha pubblicato un articolo nel quale si mettevano in rilievo punti di vista opposti sulla narrazione in Rete a partire dalle affermazioni di Ben Macintyre, storico ed autore di un articolo pubblicato sul Times dal titolo The Internet is killing storytelling.[2]

Macintyre afferma:

Dipendenti dal BlackBerry, dominati e infastiditi dal continuo susseguirsi di feed, link e sms, siamo in uno stato continuo di attenzione parziale, troppo bombardati da brevi frammenti di informazione per concentrarci su qualsiasi cosa per un periodo prolungato. I ricercatori della Microsoft hanno scoperto che un individuo distratto da un avviso di email impiega una media di 24 minuti per tornare al livello di concentrazione precedente.[3]

Si parte quindi dalla premessa che la Rete è fonte di distrazione continua, e che l’interruzione frequente dello stato di concentrazione causa sul lungo periodo l’incapacità di mantenere alto il livello di concentrazione sul testo: “Era inevitabile che più di un decennio di lettura digitale avrebbe cambiato il modo in cui leggiamo”.[4] Macintyre basa la propria critica sulla lettura di un saggio di Nicholas Carr[5] in cui si afferma:

Come aveva messo in rilievo il teorico dei media Marshall McLuhan negli anni ’60, i media non sono solo canali passivi di informazione. Forniscono materiale al pensiero, ma danno anche forma al processo del pensiero. E quello che la Rete sembra stare facendo è tagliare via un pezzetto alla volta la mia capacità di concentrazione e di contemplazione. La mia mente ora si aspetta di ricevere informazioni nel modo in cui la Rete la distribuisce: in una corrente di particelle che scorre rapidamente. Una volta ero un sub nel mare delle parole. Ora procedo velocemente sulla superficie come un tizio su una moto d’acqua.[6]

Carr cita, a sua volta, uno studio[7] condotto da un gruppo di ricerca dello University College London e commissionato dalla British Library and dal JISC[8] allo scopo di identificare il modo in cui i ricercatori del futuro accederanno alle risorse digitali ed interagiranno con esse entro dieci anni. Nello studio si trova la seguente affermazione, riportata anche da Carr:

I tempi medi che gli utenti trascorrono sugli e-book ed e-zine sono molto brevi: di norma rispettivamente quattro e otto minuti. È chiaro che gli utenti non leggono on-line nel senso tradizionale, infatti ci sono segnali che nuove forme di lettura stanno emergendo, visto che gli utenti visionano orizzontalmente i titoli, pagine di contenuti e riassunti prediligendo risultati veloci. Sembra quasi che vadano on-line per evitare di leggere in senso tradizionale.[9]

Sostiene quindi Carr che probabilmente leggiamo di più oggi di quanto leggevamo negli anni ‘70 e ‘80, quando la televisione era il nostro medium preferito. Tuttavia di tratta si un tipo di lettura diverso, e dietro di essa si cela un diverso modo di pensare, forse anche una diversa percezione del sé. Lo stile di lettura della Rete, continua Carr, è improntato all’immediatezza e all’efficienza, indebolendo la nostra capacità di concentrarci nella lettura approfondita di testi lunghi e complessi diffusi dalla stampa.

L’approccio critico di Carr si esplicita quando afferma che:

L’idea che le nostre menti debbano funzionare come processori ad alta velocità non è solo connaturata al funzionamento di Internet, è anche il modello economico dominante nella rete. Più velocemente navighiamo, più riferimenti ipertestuali clicchiamo e più pagine visitiamo, più opportunità hanno Google e le altre aziende di raccogliere informazioni su di noi e di riempirci di pubblicità.[10]

Carr afferma che la modifica profonda apportata dall’utilizzo di Google alla modalità di lettura di chi fa uso di Internet è strettamente legata all’idea che questa è una società legata al marketing e che la nostra mente ha oramai adattato processi tradizionalmente lenti come quello della lettura al tempo imposto dalle dinamiche di marketing. Dice ancora Carr:

Il tipo di lettura approfondita che una sequenza di pagine stampate incoraggia ha valore non solo per la conoscenza che si acquisisce dalle parole dell’autore, ma per le vibrazioni intellettuali che quelle parole fanno scaturire nelle nostre menti. Negli spazi quieti aperti dalla lettura prolungata e non distratta di un libro, o comunque da ogni atto di contemplazione, facciamo le nostre associazioni, i nostri collegamenti e le nostre analogie, nutriamo le nostre idee.[11]

Le parole lette in silenzio sulla carta tramite una lettura sostenuta e non distratta producono vibrazioni intellettuali, lasciano la possibilità di creare associazioni e analogie, di nutrire le nostre idee. La conclusione del saggio di Carr è che affidandoci progressivamente ai computer per mediare la nostra comprensione del mondo è la nostra intelligenza ad appiattirsi in intelligenza artificiale.

In quale modo quindi la modifica del processo di lettura operata dalle pratiche di fruizione dell’informazione in Rete esercita un influsso anche sulla narrazione? È vero che lo stato di attenzione continua ma parziale, come sostiene Macintyre, produce una vittima eccellente, cioè la narrativa? La trama è destinata a morire perché il lettore da un lato non è più in grado di sostenere la lettura approfondita, dall’altro trova facile e veloce soddisfazione in altre forme narrative, per esempio le serie televisive o i post sui blog?

Parlando delle narrazioni sviluppate a partire dai telefoni cellulari, Macityre sostiene che:

Queste storie create al telefono cellulare sono scritte nel linguaggio della Rete: frammenti di parlata da sms, linguaggio gergale, emoticon, ma sono ancora senza dubbio delle narrazioni, storie con un protagonista, un inizio e una fine. Sono anche immensamente popolari: le vendite di libri in Giappone stanno crollando, ma metà dei bestseller di narrativa in classifica sono iniziati su telefoni cellulari. Qui è la prova che l’antico bisogno di narrazione, cablato nella natura umana, si adatta comodamente agli impianti nelle più nuove tecnologie. La narrazione non è morta, è stata puramente oscurata da una bufera di byte di informazioni. Una storia, se Dio vuole, è ancora la via più potente della comprensione. All’inizio era il Verbo, e il Verbo, nella grande narrazione che è la Bibbia, non era scritto con Twitter.[12]

Il grande successo di storie iniziate tramite sms dal cellulare fornisce quindi una prova che l’antico bisogno di narrazioni non è stato indebolito dalla più recente tecnologia. Tuttavia la conclusione dell’autore è che la narrazione non è morta, ma è stata oscurata da un eccesso di informazione frammentata. Una storia è ancora il mezzo migliore per la comprensione.

Leigh Garland, lettore dell’articolo e commentatore del Times online, fa però notare a Macintyre che “è evidentemente passato molto tempo da quando l’autore ha letto la Bibbia, visto che è essenzialmente una raccolta di storie molto brevi, scritte da fonti multiple, collazionate e presentate come fatto storico senza prova corroborante. Esattamente come Twitter.[13]

Qual è quindi la differenza fra una narrazione articolata per sentenze brevi e concise (cioè paratattica), com’è quella della Bibbia e di altri testi sacri (per esempio le Upanishad), ma antica, e una narrazione breve e concisa, ma prodotta utilizzando i nuovi mezzi di comunicazione?

La discussione collettiva

Il commento di Leigh Garland all’articolo non solo solleva una prospettiva sorprendente sull’articolo stesso, ma è soprattutto un esempio di come il commentario critico modifichi il contenuto del testo di partenza articolando una critica al testo che ne modifica la percezione. È stato sufficiente un solo brevissimo commento per squarciare l’intero apparato interpretativo del pur attendibile storico.

Emerge da questo commento che Macintyre non valuta il potenziale espressivo di testi brevi prodotti in una modalità che deriva dallo sforzo narrativo congiunto di diverse voci con scopo auto-rappresentativo. Come sottolinea Fabio Poroli, in questo procedere “la vittima eccellente è l’Autore, non la narrativa. Non si è mai narrato così tanto come in questa era”. Siamo quindi entrati in una fase in cui la narrazione è di fatto non solo collettiva, ma in cui si registra l’assenza dell’autore? Emerge quindi che se, da un lato, l’editoria punta ai lettori con i casi letterari più che con gli Autori, i lettori della rete sono lettori “naturali”, cioè spinti alla lettura da un interesse non guidato da strategie di marketing. Lettori “naturali” “non significa affatto ingenui né amatoriali in senso deteriore”: significa “poco innamorati della forma fine a se stessa”, per “lavorarla in funzione della narrazione”. (Lara Manni)

Il livello di attenzione di cui parla Macintyre non solo non sembra essersi abbassato, al contrario, il lettore in Rete è in un perenne stato di allerta e desiderio di scoperta, e ciò per riflesso influisce sulla narrazione che si modifica spezzettandosi, ma questa frammentazione è l’esatto opposto della conclusione che trae Macintyre (la narrazione non è morta ma è stata oscurata da un eccesso di informazione frammentata): la narrazione non solo è viva ma si rafforza in virtù di questa frammentazione. Recentemente una performance narrativa[14] su Facebook ad opera dello scrittore Igino Domanin ha fornito di questa potenzialità: la frammentazione della narrazione in segmenti misurati sul numero di caratteri permesso dallo status del social network, ognuno dei quali acquisisce un senso in sé rispetto alla totalità della narrazione. Questa è la descrizione della performance fornita dello stesso Domanin: “Questo era un pezzo apparso su Nuovi Argomenti un po’ di anni fa […] l’ho copiato ed editato appositamente per vedere come rendere fruibile un contenuto di questo genere su FB, utilizzando una specie di microserialità frammentata in moduli che non superino i 420 caratteri”. Siamo davanti ad una rivoluzione nella storia del testo letterario. Infatti, la questione che viene sollevata da Alessandro Bertante riguarda il destino del libro come “‘prodotto’ destinato ad una élite economica e intellettuale […] È probabile che si formino altre “forme” e “linguaggi” letterari o paraletterari dei quali adesso sappiamo ancora molto poco”. Si potrebbe chiosare che per quanto poco ne sappiamo, esistono dei modelli di riferimento che sono esattamente quelle narrazioni antiche prodotte da una collettività con intento auto-rappresentativo e che si articolano in forma frammentaria (o anche paratattica).

Sulla scomparsa del libro si apre un filone discorsivo interno al commentario, nel quale si tratta del ruolo delle biblioteche, come luoghi che tutelano e mettono a disposizione il supporto libro agli utenti nell’epoca, come indica Bertante, del declino dell’oggetto/prodotto libro. Secondo Bertante si è prodotta una “decisiva frattura fra chi possiede gli strumenti culturali per approcciarsi all’oggetto libro e chi non si pone nemmeno il problema di farlo, spesso serenamente o rivendicandolo come motivo d’orgoglio”. Particolare attenzione viene rivolta anche allo stato di disagio in cui versano le biblioteche pubbliche e al tentativo compiuto dalla Bilbioteca Nazionale di Firenze di digitalizzare testi fondamentali divenuti introvabili con il supporto di Google, tentativo che è stato bloccato da una forte resistenza interna. (Serena Adesso)

Viene quindi messo in rilievo il problema “del ruolo di interpretazione-mediazione con cui impiegare l’intellettuale e i suoi strumenti-prodotti” in una società in cui il capitalismo “avanzato” attuale” rende inutile “la funzione di mediazione (politico-culturale) in assenza di risorse da redistribuire in cambio di pace sociale per lo sviluppo economico” (Giovanni Maruzzelli). Chi è quindi che dovrebbe agire da mediatore fra i chi produce i discorsi dominanti e chi li riceve? Viene rilevato che uno svantaggio della rete, cioè che “la maggior parte degli utenti ne ignora le possibilità” (Ekerot). “Tuttavia le possibilità sono enormi e vanno esattamente nel senso opposto rispetto a quello indicato Macintyre, cioè maggiore complessità, e persino maggiore approfondimento.” (Lara Manni)

La Rete “aiuta in quanto palestra del labirinto che una trama può dare in maniera eccelsa, anche come ricezione di materiali e realtà. È una iniziazione alla complessità che la forma diaristico-blogghista ignora a favore dell’istantaneità” (Alessandro Raveggi)

La questione di Internet come mezzo che indebolisce la narrazione è anche “un problema di ‘competenza’ del destinatario: non tutti “riescono a prendervi parte e fruirne in maniera ugualmente attiva”. (Alessia Risi) La competenza del destinatario sembra essere direttamente proporzionale alla sua vocazione di lettore “naturale” e viene percipita come elitaria. La consapevolezza nell’uso della rete non è solo un fatto generazionale, ma dipende anche dalla distinzione fra “uso (attivo e creativo) e consumo (passivo), […] e fra chi si accosta “alle nuove medialità dopo aver imparato a leggere e scrivere in maniera lineare” e chi imparare a leggere e scrivere direttamente su uno schermo (Valentina Fulginiti)

L’indebolimento del supporto/libro non viene affatto ritenuto un argomento forte per sostenere che la narrazione ne risente in maniera negativa, scomparendo, o peggio morendo. Simone Ghelli cita Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale: “dato che il film scompare nelle successive sostituzioni dell’analogico con il digitale, ciò che rimane è il cinema come forma narrativa ed esperienza psicologica, una determinata modalità di articolare la visione, la significazione e il desiderio attraverso lo spazio, il movimento e il tempo.” Ghelli avverte nel discorso di Macintyre un parallelismo fra libro (e ciò che veicola cioè la letteratura) e la narrazione, “che dimostra una forma di anacronistico rifiuto verso tutte le altre possibili forme di narrazione: come se insomma non ci fosse altrettanto della scrittura (e dunque una possibilità di messa in forma, di narrazione) in un film o in un montaggio d’interventi su un blog”.

Commentario critico come spazio della discussione

Come emerge da questo esempio di montaggio di brani di discussione tratti dal commentario critico, l’articolo di Macintyre non ha affatto convinto alcuni utenti abituali della rete, dotati di strumenti interpretativi idonei a praticare una critica del testo, ampliandolo e sollevando questioni che ne indeboliscono le premesse e quindi le conclusioni.

È significativo che dalla sua rubrica Blog-Notes della Domenica del  Sole 24 Ore, Marco Filoni si chieda in termini filosofici: “il blog come spazio di discussione come e in quale misura deve essere regolato?” Il problema a Filoni risulta chiaro: “[i]l mezzo del “commento”, per sua  natura veloce e immediato, è assimilabile a quello dell’oralità: quindi al suo ritmo, e anche ai suoi attuali modelli”.[15] La questione del rapporto fra scrittura in Rete e oralità viene spesso sollevata, non a caso il testo di riferimento per chi si occupa di comunicazione in Rete è il classico studio di Ong su oralità e scrittura.[16]

La questione viene infatti affrontata anche all’interno di ciò che Filoni chiama lo “spazio di discussione” e che da Jenkins è stato definito “commentario critico”.[17] Che differenza c’è fra queste due definizioni? La prima richiama direttamente la caratteristica orale del commentario critico, attraverso l’utilizzo di due termini che connotano il luogo e la modalità discorsiva adottata: “spazio” e “discussione”. Per discussione che si svolge in un determinato spazio si intende correntemente un dibattito su un argomento specifico svolto in un’area adibita a questa attività, che può essere immateriale (lo spazio inteso come il tempo dedicato ad un’attività. Per esempio: nell’ambito di un convegno, dopo una relazione viene dedicato del tempo, in genere non più di quindici minuti, alla discussione sul tema affrontato dal relatore. Lo spazio è quindi sia il luogo fisico dove avviene la discussione – l’aula seminariale – sia il tempo dedicato dagli organizzatori della conferenza rispettivamente all’esposizione e alla discussione che ne deriva). Attraverso l’utilizzo di questa terminologia si può quindi tracciare un parallelo fra l’attività e la dinamica di discussione nel mondo reale e quella on-line. Il post si può equiparare all’intervento del relatore (che, quindi, invece di esporre pubblicamente un testo scritto, fa l’inverso, cioè pubblica il testo scritto con uno stile che richiama l’esposizione orale), mentre l’equivalente dello “spazio di discussione” è il commentario critico, che secondo la lezione di Jenkins può articolarsi nel nodo dei commenti, che esulare ad altri nodi, altri post, note pubblicate su social network, per esempio la nota su Facebook in cui ho richiamato l’articolo di Lipperini e che ha generato un altro “spazio di discussione” rispetto a quello originario, cioè lo spazio in calce al post pubblicato in Lipperatura. Si può dire, quindi, che il commentario critico è quello “spazio di discussione” che si articola in diversi nodi della Rete, che diffonde in modo capillare la discussione, la estende, ne discute le premesse e aiuta a trarne diverse conclusioni.

Filoni, tuttavia, sottolinea un altro aspetto della natura orale del commentario. Il mezzo del commento è assimilabile ai suoi attuali modelli. Quali sono questi modelli? A quale tipo di comunicazione è abituato l’utente che si sia formato alla dialettica, cioè l’arte di articolare strategie discorsive sia per iscritto che per via orale, tramite il modello comunicativo offerto dalla società italiana?

Questa è una questione che andrebbe studiata da un punto di vista antropologico. Il modello comunicativo offerto dai media italiani è di tipo aggressivo/difensivo: ciò che emerge anche da un’osservazione superficiale delle modalità comunicative sia nella realtà che nei programmi televisivi e nella stampa, è che la comunicazione non utilizza strategie retoriche tese ad affrontare le questioni poste, ma propone un approccio verbalmente aggressivo, spesso basato su argomentazioni articolate in modo tale che emergano dubbi circa l’attendibilità dell’interlocutore, provocando una reazione dello stesso, e deviando l’attenzione dall’argomento trattato verso chi lo sta trattando. Si tratta di una modalità comunicativa conflittuale, che si è trasferita al commentario critico on-line. Di conseguenza, la questione posta da Filoni, cioè come e in quale misura si possa regolare lo spazio di discussione, chiama in causa l’habitus, quella serie di comportamenti acquisiti per condivisione di uno spazio sociale.

La risposta che propongo è che lo spazio della discussione sia soggetto ad autoregolamentazione, ed è qui che emerge un’altra questione fondamentale, cioè quella dell’assunzione di responsabilità rispetto ai contenuti che si immettono in Rete, vista la rintracciabilità dei medesimi. Il problema che rimane aperto, quindi, non è il come si possa regolare il commentario critico, ma il chi debba regolarlo, cioè l’utente della Rete stesso, colui che produce ed immette in Rete i propri contenuti. Perché il commentario critico rappresenti un mezzo credibile per esercitare critica in Rete è necessario che la sua compilazione collettiva rispetti l’obiettivo che questa attività si pone in maniera implicita, cioè produrre risposte ai discorsi imposti dalla critica ufficiale. Si chiedeva (e chiedeva ai suoi lettori), infatti, Filoni, sempre dalla sua rubrica Blog-Notes: “dov’è la critica in Rete?”[18] È evidente che la critica in Rete non può essere credibile se il commentario rispecchia un modello comunicativo improduttivo.

[Una nota sul metodo: nella costruzione di questo articolo, ho derivato i materiali dall’articolo di Lipperini e di Filoni, pubblicati in prima istanza su due quotidiani a diffusione nazionale. Ho raccolto frammenti dalle chiose generate in calce alla nota pubblicata da me su Facebook e al post pubblicato da Lipperini su Lipperatura; ho poi raccolto e ordinato i frammenti di conversazione per temi in modo tale da renderli discorsivi. I commenti sono stati trattati con metodo filologico, allo stesso modo dei riferimenti secondari, senza alcuna differenza rispetto a materiali pubblicati su supporto cartaceo. Ho corretto i refusi in modo tale da rendere il testo fruibile su stampa. Le traduzioni dall’inglese sono mie. Questo processo si è generato e ha assunto una forma completa nelle giornate del 7 e 8 novembre 2009. Ringrazio tutti coloro che hanno partecipato attivamente a questa discussione.].


[1] http://loredanalipperini.blog.kataweb.it

[2] http://www.timesonline.co.uk/tol/comment/columnists/ben_macintyre/article6903537.ece

[3] “Addicted to the BlackBerry, hectored and heckled by the next blog alert, web link or text message, we are in state of Continual Partial Attention, too bombarded by snippets and gobbets of information to focus on anything for very long. Microsoft researchers have found that someone distracted by an e-mail message alert takes an average of 24 minutes to return to the same level of concentration.”

[4] “It was inevitable that more than a decade of digital reading would change the way we do it.”

[5] N. Carr, “Is Google Making Us Stupid? What the Internet is doing to our brains”, The Atlantic (July/August 2008), http://www.theatlantic.com/doc/200807/google

[6] “As the media theorist Marshall McLuhan pointed out in the 1960s, media are not just passive channels of information. They supply the stuff of thought, but they also shape the process of thought. And what the Net seems to be doing is chipping away my capacity for concentration and contemplation. My mind now expects to take in information the way the Net distributes it: in a swiftly moving stream of particles. Once I was a scuba diver in the sea of words. Now I zip along the surface like a guy on a Jet Ski.”

[7] Information behaviour of the researcher of the future, http://www.bl.uk/news/pdf/googlegen.pdf

[8] http://www.jisc.ac.uk/

[9] “The average times that users spend on e-book and ejournal sites are very short: typically four and eight minutes respectively. It is clear that users are not reading online in the traditional sense, indeed there are signs that new forms of  ‘reading’ are emerging as users ‘power browse’ horizontally through titles, contents pages and abstracts going for quick wins. It almost seems that they go online to avoid reading in the traditional sense.” (p. 10) Il concetto è approfondito più avanti nello studio commissionato dalla British Library: “Così scannerizzano, sfogliano e visionano nel contenuto digitale sviluppando nuove forme di lettura online”. [So they scan, flick and ‘power browse’ their way through digital content, developing new forms of online reading. (p. 8)]

[10] “The idea that our minds should operate as high-speed data-processing machines is not only built into the workings of the Internet, it is the network’s reigning business model as well. The faster we surf across the Web—the more links we click and pages we view—the more opportunities Google and other companies gain to collect information about us and to feed us advertisements.”

[11] “The kind of deep reading that a sequence of printed pages promotes is valuable not just for the knowledge we acquire from the author’s words but for the intellectual vibrations those words set off within our own minds. In the quiet spaces opened up by the sustained, undistracted reading of a book, or by any other act of contemplation, for that matter, we make our own associations, draw our own inferences and analogies, foster our own ideas.”

[12] “These mobile telephone tales are written in the language of the net: scraps of text-speak, slang and emoticons, but these are still unmistakably narratives, stories with a protagonist, a beginning and an end. They are also hugely popular: sales of books in Japan are dropping, but half the Top Ten fiction bestsellers started on mobile telephones. Here is proof that the ancient need for narrative, hardwired into human nature, can sit comfortably with the wiring of the newest technology. Narrative is not dead, merely obscured by a blizzard of byte-sized information. A story, God knows, is still the most powerful way to understand. In the beginning was the Word, and the Word, in the great narrative that is the Bible, was not written as twitter.”

[13] “Obviously it’s been a very long time since the author has read the Bible, as it is essentially a collection of very short texts, written by multiple sources, collated and presented as fact without corroborating evidence. Exactly like Twitter.”

[14] La definizione è di Giuseppe Genna: http://www.giugenna.com/2009/10/28/gigantesco-domanin-su-facebook-un-racconto-in-21-status-do-you-remember-magnum-p-i/

[15] M. Filoni, “Chi filtra nella rete”, Sole 24 Ore (inserto Domenica), 08/11/09.

[16] W. J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986.

[17] “A critical essay puts forth an interpretation of the work in question, one which includes debatable propositions which are in turn supported by the mobilization of some kind of evidence — either internal (from the work itself) or external (from secondary texts which circulate around the work). […] [C]ritical commentary may, in fact, embrace the ideas included in the original work as well as take issue with them.” [Un saggio critico avanza un’interpretazione dell’opera in questione, che include affermazioni aperte alla discussione supportate dalla mobilitazione di qualsiasi tipo di prova – interna (dall’opera stessa) o esterna (da testi secondari che ruotano attorno all’opera). (…) Il commentario critico può di fatto abbracciare le idee incluse nel testo originario come discuterle in maniera critica.] Jenkins include nella definizione di commentario critico anche il prodotto del fandom: “Fan stories are in no simple sense just ‘extensions’ or ‘continuations’ or ‘extra episodes’ of the original series. Unlike the model critical essays discussed by the various university writing centers, the insights about the work get expressed not through nonfictional argumentation but rather through the construction of new stories.” [Le storie narrate dai fan non sono semplicemente “estensioni” o “continuazioni” o “episodi extra” della serie originale. Diversamente dai modelli di saggi critici discussi dai centri di scrittura delle varie università, le analisi dell’opera si esplicitano non attraverso argomentazioni di tipo saggistico ma piuttosto attraverso la costruzione di nuove storie.] Costruire nuove storie partendo da un testo dato è quindi un modo alternativo alla saggistica che si può produrre intorno ad un testo per esplicitarne e discuterne i contenuti. Cfr H. Jenkins, “Fan Fiction as Critical Commentary”, http://www.convergenceculture.org/weblog/2006/09/fan_fiction_as_critical_commen.php

[18] M. Filoni, “Giudizi su Web”, Sole 24 Ore (inserto Domenica), 01/11/09. Articolo disponibile qui: http://www.giugenna.com/wp-content/uploads/2009/11/blog-notes-1-nov.jpg


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